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ESTRATTI

da I PASTICCI DI LEONARDO

Salaì, figliolo, mio angelo e demone, a te consegno e dedico i giorni ricordati su questo intimo diario e tutte le ricette che tu ben conosci. Tutto quello che non voglio mostrare e che custodisco gelosamente nella parte più nascosta di me vive in codeste pagine. Alla malinconia, alla gioia e al tormento che hanno accompagnato i momenti più importanti della mia incredibile esistenza ho dato un sapore e un profumo, sono diventati cibo. Non lasciare che questi scritti siano accessibili a tutti, mio amato Salaì, non cederli a chi vuole solo mercificarmi, tienili con te e quando non ci sarai più fai in modo che finiscano nelle mani e nel cuore di chi potrà apprezzare l’uomo e non solo l’artista. Porta queste pagine nella mia Vinci, portale dove tutto ha avuto inizio.

Tienimi nel tuo cuore.

Leonardo


Ascanio se ne stava seduto immobile e teneva tra le mani, dure come la pietra, le pagine logorate dal tempo di quello che doveva essere stato il diario segreto di Leonardo Da Vinci. I fogli ridotti a un velo pesavano come una zavorra. Uno sguardo disorientato gli segnava il volto. Non era solito perdere la calma, sapeva governare le tempeste interne, mostrava sempre una certa sicurezza nei gesti e nel tono di voce ogni volta che doveva affrontare le difficoltà, ma questa volta la paura dell’ignoto lo risucchiava.



Tratto dal romanzo storico “I pasticci di Leonardo” di Simona Bertocchi.

 

da L'ULTIMA ROSA DI APRILE

Simonetta affrontò quel periodo pervasa dall’ansia di essere seguita o controllata nelle giornate che trascorreva, ormai quasi assiduamente, a Palazzo Medici. Forse la spiava qualcuno della fazione antimedicea del poggio mandato da Dietisalvi Neroni, Luca Pitti o Angelo Acciaiuoli per sollevare uno scandalo. Pensò che il suo inseguitore potesse essere qualcuno che agiva contro i Medici e i loro sostenitori in nome della vecchia libertà fiorentina o forse era solo l’ansia a farle brutti scherzi. Era stanca di domare l’impetuosità degli eventi: la gelosia di Marco; l’amore di Giuliano che la invadeva o l’abbandonava; il suo volto prestato agli artisti; il suo nome sulla bocca dei nemici dei Medici; i continui favori ed elogi del Magnifico che la ponevano al centro della cronaca cittadina. Era stanca!


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“Perdonate il mio ritardo messer Filipepi”, la voce di Simonetta colse tutti di sorpresa, entrò senza farsi annunciare, mentre Botticelli parlava con Giuliano di alcune commissioni che i Medici gli avevano ordinato.

“Siete venuta prima del previsto, donna Simonetta” disse il pittore, il sorriso straripante di gioia sorprese Giuliano.

“Siete qui, madonna.” Giuliano le si avvicinò, si scambiarono uno sguardo innamorato e un sorriso di quelli che solo gli innamorati sanno far nascere.

“Un ritratto… mi è stato detto che il maestro avrebbe dovuto ritrarmi”, non riuscì a mettere insieme la frase, era tutta rossa in volto come ogni volta che incontrava per caso il suo Medici. Nella stanza, riscaldata da un braciere, entrò un vento caldo impetuoso che fece divampare le fiammelle e scompose i fini capelli biondi di Simonetta. Fogli disegnati a carboncino col volto di Simonetta si sollevarono in una danza impazzita. Fuori continuava a nevicare e quell’improvviso vento caldo, profumato di primavera, lasciò i due uomini sbigottiti. Medici, morso dalla gelosia per l’intesa tra Simonetta e il maestro, prese le piccole mani e le scaldò, poi le baciò, le fece un’ultima carezza sul viso e lascio la stanza. Donna Vespucci si sforzò di apparire rilassata, ma gli occhi, lucidi di emozione, la tradirono. Seguì un lungo silenzio a cui il pittore e la modella si erano abituati, poi, Simonetta, immobile nella sua posa plastica, sentì il bisogno di confidarsi, senza però guardarlo negli occhi:

“Mi cacceranno dal palazzo, mi uccideranno e poi si vendicheranno con i Medici. Dopo quanto hanno fatto a Marco, nessuno li potrà fermare”. Non riuscì a dire altro, Botticelli accolse la sua disperazione trattenuta con tenerezza, il peso di tutti quegli avvenimenti doveva essere insopportabile per la giovane.  

“Nessuno vi caccerà donna Simonetta, siete la mia musa e Firenze ha bisogno di voi per tornare a splendere, perché ne rappresentiate la bellezza. Le veneri e le dee non si cacciano. I Medici vi proteggeranno sempre.”

“La giostra di Giuliano mi metterà in pericolo, lo sento.”

“Il torneo, invece, vi darà onore, madonna. Il popolo vuole tornare a sognare attraverso le gesta di dame e cavalieri, vuole emozionarsi alle parate e tifare ai combattimenti. Tutti assisteranno all’amor cortese tra il principe e la sua amata, sognanti tra finzione e realtà. Giuliano sarà Orlando e Rinaldo insieme: il coraggio, la virtù e l’amore, colui che vi donerà l’elmo per dedicarvi la vittoria.”  

Finse di credere a quelle parole e tornò in posa ma la sua mente vagava altrove. 




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da NEL NOME DEL FIGLIO

Elena aveva cercato in un posto preciso del deposito delle armi del castello Malaspina trovando, sotto il masso indicato nella lettera, il diario di Beatrice Pardi, dama di compagnia di sua madre.

La copertina si vedeva a malapena per lo strato di terriccio che la copriva, le pagine erano rovinate dall’umidità ma si potevano ancora leggere.

Finalmente lo aveva tra le mani, tentò di quietare l’ansia che la divorava con un bel respiro, sfogliò le pagine con dita tremanti, prima lentamente, poi in modo avido. Lesse alcune frasi, notò le sottolineature e si accorse che una busta piena di documenti sporgeva: erano copie di atti, testamenti e una fitta corrispondenza delle Marchesane di Massa.

C’era tutto!

………..


Il corteo partì dalla porta del Castello, scese composto e silenzioso. Era aprile ma faceva freddo e nuvole grigie minacciavano pioggia. L’odore del bosco e quello della legna bruciata salivano tra le mura umide, un silenzio assoluto regnava sul borgo disturbato solo dal verso degli uccelli.

Ricciarda, noncurante della tristezza del momento, allungò il passo obbligando tutti noi a starle dietro a fatica. Le ero accanto e notai uno sguardo attento e guizzante mentre recitava a memoria le preghiere con un tono di voce troppo alto.

Alla cerimonia funebre del marchese Malaspina parteciparono uomini di Chiesa, principi, signori, rappresentanti di comunità religiose destinatari di generosi lasciti.

Prima dell’omelia di suffragio il duca Alfonso d’Este volle lodare le gesta di Antonio Alberico II Malaspina, accanto a lui stavano a testa bassa la moglie Lucrezia Borgia e il figlio Ercole; nell’altra ala della navata pregavano commossi i membri della famiglia Fieschi; non mancavano esponenti dei signori di Firenze, in primis Giulio de’ Medici che sarebbe poi diventato papa Clemente VII.

La chiesa dei Santi Francesco e Pietro era gremita da una massa di persone vestite di nero, sembrava un’enorme nuvola scura e gli abiti di porpora dello Stato Pontificio spiccavano incredibilmente.

Un’unica voce prima lontana e poi tuonante si levò nelle navate a recitare il “Requiem Aeternam”, seguì il suono triste e penetrante dell’organo.

La moglie del marchese, le sue figlie e il genero Scipione Fieschi, stavano composti intorno alla bara del marchese di Massa issata su un catafalco sormontato da un baldacchino.

Ogni qualvolta il portone si apriva entravano voci dalla strada e folate di vento facevano tremare la fiamma delle candele; l’odore acuto dell’incenso si mescolava a quello degli oli ed essenze delle nobili signore volte a pregare con i volti immobili e scolpiti.

Fuori c’era il popolo, i sudditi di Antonio Alberico II, la gente riconoscente per il suo governo retto e onesto. Pregavano anche loro, sussurravano il suo nome, avevano gli occhi lucidi. Loro sì che pregavano ... loro sì che si commuovevano con ammirevole dignità ...

La vedova Lucrezia non versò una lacrima, il volto scarno e pallido dalle folte sopracciglia e gli occhi infossati non lasciava trapelare emozioni, pregava rigida con le mani congiunte sotto strati di stoffa nera. Guardava il nulla e pregava, non so se per assicurare l’anima del suo caro a Dio o se per chiedere a Lui la forza di amministrare il feudo tenendo lontano tutti quegli avvoltoi che continuavano a farle le condoglianze.

Taddea piangeva sommessamente agitando le spalle sotto il velo, ricordo ancora lo sguardo severo che la sorella Ricciarda le rivolse.

Soffriva Ricciarda?

Non saprei dirlo, in certi momenti si guardava intorno e metteva sotto la lente tutte le presenze in quel luogo sacro, altre volte gli occhi lucidi e smarriti si posavano sulla bara del padre, a volte ancora pregava muovendo appena le labbra verso la statua della Madonna.


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da LOLA SUAREZ

È una bravissima giocoliera con le parole, le escono di getto, poi si plasmano su chi ha davanti, a volte sono lievi, dolci, sbiadite e subito dopo violente, cariche, rapide. Nei silenzi, invece, parlano i suoi occhi divoranti, luminosi e grandi, pronti ad assorbire ogni cosa su cui si posano.

Lo sguardo e le parole di Lola sono capaci di travolgere, domare e dominare ogni situazione.

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Il ristorante dei Suárez si chiama Volver, come il titolo del famoso tango del cantante argentino Carlos Gardel.
Diego ricorda che, quando abitava a Buenos Aires, un cantore, basso e con gli occhi sporgenti, si esibiva tutte le sere all’angolo del quartiere di Boca cantando strazianti milonghe in re minore. Non si capiva se cantasse per se stesso o per la gente, ma ognuno faceva sue quelle parole. La voce potente si levava tra i vicoli stretti e umidi illuminati d’argento, tra le case basse e colorate del porto, tra i lampioni che spargevano una luce tenue e tremolante.
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Nessuno dei due vuole più cacciare i ricordi, anzi, li raccolgono, uno per uno per ricomporre quelli più lacerati e unirli agli altri fino a quando quel passato non possa più fare male.

Anche Diego per molto tempo aveva ignorato che sotto la città c’erano più di trecento lager clandestini, atroci teatri di torture e di morte.

Chi viveva fuori dall’inferno non sapeva dove fossero finiti i familiari desaparecidos. Diego, oltre a ignorare dove fosse sua moglie, provava quella folle angoscia di chi cerca nel buio.

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Lì, in un bar del centro, tra persone che addentano un panino e giovani chiassosi che ingoiano birre spumose, tra il rumore della macchina del caffè e la canzone del momento che fa da sottofondo, Lola racconta tutta la storia, svuota la sua vita, fa uscire le prime gocce di parole fino a sprigionare una cascata.

Julio la fissa con uno sguardo permeabile che inghiotte ogni frase. “Ora ti chiedo quali sono le prove che dimostrano che proprio io sia tuo fratello,” dice con gli occhi chiusi. Spera riaprendoli di non trovarla più là, di non essere in quel bar, di commentare una storia che non gli appartiene.



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da I COLORI DI VENERE

IL CIELO DI EMMA


Lo guardo ogni giorno, lo guardo più volte, lo accarezzo con gli occhi, ne conosco ogni singola pennellata, ogni piega della veste che danza al vento, sento anche il rumore del mare in lontananza, l’odore del prato, l’umido della terra, lo vedo attraverso quegli occhi malinconici.

Certo, non è un soggetto originale: la solita donna vicino al mare, eppure quell’immagine ha un potere sconosciuto su di me: un’elegante signora seduta su una collina si tiene il cappello che sta per volare e con gli occhi cerca un cielo limpido tra le nuvole, tenui raggi di luce le illuminano appena il volto fiero e delicato dalle labbra socchiuse e i capelli ramati danzano al vento. Nel fondo un mare in tempesta rappresenta la sua anima.

La gente si ferma davanti al quadro di medie dimensioni dipinto a olio, sorridono per tanto romanticismo, per l’eleganza della donna che domina la collina ma nessuno è rapito dall’intensità di quello sguardo, dalla forza contenuta chiusa nel corpo. La donna nel dipinto non ha un’espressione drammatica o eccessivamente romantica, anche il suo sguardo è misurato, eppure dentro la forma armonica io avverto il mare in tempesta, un grido di libertà, la ricerca di chi non c’è più, la voglia di volare. Avverto persino una piega ironica sulla sua bocca.

Come possono fermarsi davanti a quest’opera senza entrare in quegli occhi di donna perduti e speranzosi? Come possono rimanere indifferenti a chi cerca spazi limpidi ma è imbrigliato nell’ombra?

Nessuno vede niente di quanto vedo io, ovviamente.

Dopo essersi piazzati davanti all’opera, la contemplano qualche minuto, poi si avvicinano per leggere il nome dell’artista: Ferdinando Airoldi.

Mai sentito, mormorano.


Ogni giovedì viene alla mostra un’anziana signora sempre molto elegante, ha uno sguardo azzurro malinconico e un sorriso dolce e mesto. Mi accorgo sempre quando arriva per il profumo alla violetta che la avvolge. Cammina appoggiata a un bastone sforzandosi di rimanere dritta e dignitosa.

Dal tailleur bianco di alta sartoria con tanto di perle al collo capisco che è una persona benestante e fantastico sulla sua vita.

La ricca signora sembra avere un appuntamento fisso con il mio quadro preferito: entra sempre con una certa fretta e si mette davanti all’opera “Il cielo di Emma”, la guarda ogni volta come fosse la prima e si emoziona. Gli occhi azzurri le si illuminano tra tutte le rughe di una vita tese su una pelle bianchissima, deglutisce e poi sorride. Quel sorriso che nasce da dentro e gli occhi lucidi attirano l’attenzione di un bambino che la guarda attento, poi osserva il quadro con ancora più attenzione e legge il titolo dell’opera, infine rivolge ancora un ultimo sguardo all’anziana donna.

“Sei tu Emma?” le chiede piantandole gli occhi addosso.

“Si”, risponde lei accarezzandogli la testa.


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Poesie tratte dai libri ANIMA NUDA e VIAGGIO SCALZA

BRANDELLI

Sono stata così a lungo infilzata

tra le pieghe della tua anima,

che uscendone,

ho lasciato brandelli della mia.


Scivolo via,

stringo forte la mia parte

con le radici ancora grondati.

VIAGGIAMI NELL'ANIMA

Se vuoi

accompagnami,

rompi la crosta del mio cuore,

viaggiami nell’anima,

seguimi

in questo cammino

in cui ci perderemo

tante e tante volte.

Se ti spaventano i miei deserti,

se ti soffocano le mie fitte foreste,

se i miei fiumi sono in piena

e i miei laghi malinconici,

allora … abbandona il cammino.

Se ti fermi

senza avere esplorato il mio mondo,

senza avere annusato

ogni mio odore,

senza avere assaggiato

tutti i miei sapori,

senza esserti imbrattato

di tutti i miei colori,

non entrare nel mio universo.


IL SUD

L’abbraccio del Sud

ha il sole in faccia,

mi porta in una terra antica

solcata di vita,

è femmina,

è madre,

profuma di mare.   


Il canto della gente del Sud,

irrompe nel mio essere,

mi affascina

quel teatro fatto di gesti,

smorfie,

suoni,

gemiti,

risate.   


Il tempo qui si dilata,

sorvola sulla vita,

si sdraia pigro

poi si alza e danza

fino a quando l’allegria torna malinconia,

chiusa nei nodi della paura

che la speranza scioglie.

 

Il Sud succhia la vita

dalle radici della terra ferita

e la trattiene

negli occhi della sua gente.

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